ANDANDO IN UFFICIO

Il suo nome è Augusto Miracapillo, è nato a Bari nel settembre del 1954.
E’ nato in casa, con l’ostetrica, perché allora per nascere non si andava in ospedale, si usava il tavolo della cucina.
Ora vive a Milano, in periferia e ha una gran nostalgia per il “crudo”.
Vive solo Augusto, nel suo piccolo bivani in una traversa di via Inganni, non troppo pulito né troppo sporco; d’altra parte ci vive poco, sta sempre in ufficio.
Lavora come corrispondente dei Lloyd’s negli uffici milanesi di una società di brokeraggio assicurativo che sta in centro, ma si raggiunge facilmente con la metropolitana.

Ore 7.00 del mattino, Augusto esce da casa, una camminata, solo 200 metri e scende le scale del metrò.
-Buongiorno, il Corriere per cortesia…
Il solito giornalaio porge il giornale ad Augusto che si avvia verso la barriera dei tornelli.
Ecco un botto, poi un altro e si sprigiona moltissimo fumo denso, nero.
(Che succede?) Pensa Augusto fermandosi d’improvviso lungo il muro del corridoio.
La scena non è più familiare: la stazione della metropolitana si è trasformata in una bolgia infernale, urla, gente che fugge verso le scale, verso l’aria aperta.
Resta immobile, appiattito contro il muro della stazione. Gli occhiali si sono appannati, non vede più niente e in quel momento ricorda il Lungomare di Bari degli anni ’60, quando le macchine si sentivano arrivare fin dalla Rotonda e lui, bambino, giocava con gli amici ai giardini.
Augusto è stanchissimo, fa fatica persino a respirare; tutto intorno è un andare e venire di pompieri, soccorritori, feriti, forse morti.
Il Nostro si toglie gli occhiali, non vuole vedere, ha ancora il Corriere tra le mani, ma non ha fatto in tempo a leggere nemmeno i titoli, prima.
Ora non importa più.
Augusto cerca di pensare, di muoversi, ma non ci riesce: è immobile.
-Tutto bene, tutto intero… è una gentile signorina vestita con un camice bianco.
Augusto pensa (questa che vuole..), la sente lontana, lontana come se fosse il personaggio di un film.
-Tutto bene? Quella insiste.
-Sì, credo di sì, forse si sono rotti gli occhiali, o forse li ho tolti non so, ma per il resto credo di essere tutto intero.
-Venga, torniamo in superficie..
Augusto dà la mano a questa signora che sembra uscita da ER, ma siamo a Milano non a New York, e risale le scale.
La luce lo acceca ancora di più. Il marciapiede largo è pieno gente, barelle e accanto tante ambulanze che vanno e vengono a sirene spiegate.
Augusto si siede per terra e guarda il cielo.
Ormai è giorno fatto, il cielo è azzurro: verrebbe quasi da pensare che è una bella giornata.
Un cielo azzurrissimo a Milano si vede poche volte: è un evento eccezionale.
Augusto continua a guardare il cielo, in realtà non guarda niente, né i piccoli cirri bianchi, né il paio di elicotteri e il caccia militare che sorvolano la zona.

Si rivede piccolissimo, il suo primo ricordo riaffiora da un angolo dimenticato della memoria.
Un giorno di primavera, proprio come quello di oggi, la luce entrava dalla finestra nella cucina dove sua madre era seduta alla macchina da cucire.
Lui, Augusto era sul pavimento e stava giocando con delle piccole pentole di latta, e si ricorda perfettamente che in quel momento decise, lui bambino, di mettersi in piedi, lasciare il gioco che stava facendo per un gioco più bello: camminare.
Un pochino traballante, prima si alzò, poi fece il primo passo, poi il secondo e poi, dondolando sempre meno, si diresse verso la finestra e alzò gli occhi verso la mamma.
La mamma aveva smesso di cucire da qualche minuto e si era messa ad osservare Augusto: ora era entusiasta.
-Bravo Augusto dai vieni a’ mamma!
Si alzò dalla sedia mentre il piccolo le veniva incontro con le mani tese.
Alla fine Augusto abbraccia la mamma e la mamma abbraccia lui e gli odori della madre e del bambino si mescolano sul marciapiede nel ricordo di Augusto ormai adulto.

La mamma di Augusto si chiamava Carmela. Era, a quel tempo, una giovane signora, non molto alta, cogli occhi scuri e i lunghi capelli neri.
Delle due gravidanze le erano rimasti un po’ di chili in più e un marito che lavorava al Nord e di tanto in tanto rientrava a casa.
Sola coi bambini si era dovuta inventare il lavoro di sarta in casa e con quella attività riusciva a far fronte alle spese quotidiane.
No, non era quello che aveva sognato per sé, la madre di Augusto, quando si era scelta il più bel ragazzo del quartiere.
Si era immaginata una vita piena di cose belle e di speranze e in fin dei conti si ritrovava a faticare da mattina a sera solo per sbarcare il lunario.
Ah il piccolo Augusto che in quel momento abbracciava la madre vicino alla finestra della cucina, non avrebbe seguito la sua strada, no!
Lei non lo avrebbe permesso.
E così Augusto era cresciuto senza che gli mancasse niente: la fettina di carne ogni giorno, i vestitini modesti ma dignitosi, l’amore smisurato della mamma che da una parte lo coccolava e parteggiava per lui, Augusto, penalizzando assai la sorella Lina (in realtà Adelina, ma già compressa nel nome), che aveva sempre e comunque la peggio, dall’altra presa dal lavoro aveva spesso pensieri che escludevano il figlio da qualsiasi possibilità di contatto con lei.
Per il piccolo era una perenne doccia scozzese emotiva fatta di slanci smodati e silenzi insopportabili.
Augusto era in tutto e per tutto il cocco di mamma e crescendo la situazione non era cambiata.
Lui ricompensava lei impegnandosi molto negli studi, e nonostante le loro condizioni economiche non fossero agiate, riuscì a frequentare con successo il Flacco, cioè il liceo classico della città.
Poi all’improvviso Augusto fu costretto a crescere.
La morte improvvisa del padre e la sorella che in contemporanea, come si dice a Bari “era uscita incinta”, lo costrinsero a partire per lavorare e mandare i soldi a casa.
Prima a Londra, dove dopo una breve esperienza da cameriere, trovò per caso un impiego presso uno dei maggiori sottoscrittori dei Lloyd’s. Allora, circa il 1974, c’erano ancora i Names, ricchi signori dagli immensi patrimoni familiari che giocavano ad assicurare i rischi di mezzo mondo, procurandosi in media lauti guadagni.
Augusto si calò ben presto nel ruolo del middle class man inglese, e siccome era acutissimo e anche sfacciatamente fortunato, oltre a mandare avanti la famiglia mise da parte un discreto gruzzoletto.
Così nel 1984, decise che era arrivata l’ora di conoscere il mondo e per tre anni lo girò in lungo e in largo.
Voleva tornare, ma Bari era così distante, per uno che aveva visto “cose che Voi comuni mortali non riuscite neanche ad immaginare”, così scelse Milano, alle soglie dei quaranti anni, comprò casa, e si trovò un posto ben pagato, ma stanziale, mettendo a frutto la sua fortunata esperienza londinese.

Augusto ha rivisto sua madre e la sua infanzia con gli occhi persi nel cielo azzurro di una bella giornata milanese.
I rumori della gente che sta intorno lo riportano a questa strana mattinata in cui, invece di essere in ufficio, si ritrova seduto accanto a quella benedetta/maledetta stazione della metropolitana.
-Scusi che ora è? Gli chiede un passante (chissà se anche lui è reduce dal botto..)
-Non saprei…
-Sa con tutto questo macello si sono fermati tutti gli orologi.
-Sì infatti, il macello….mi scusi ma so proprio che dirle…
Quello passa aventi piuttosto indispettito, e Augusto si guarda le mani sono tutte sporche, nere di fumo (forse ho anche la faccia nera… chissà. Il fatto è che sono seduto, mi gira la testa non riesco ad alzarmi… Per cortesia il Corriere… e poi che è successo, perché mi trovo qua? Ah sì il botto, il fumo, mamma mia che casino!).
All’improvviso la vista si annebbia, il cielo diventa nero, Augusto fa appena in tempo a sentire le voci lontane degli operatori del 118.
Nel frattempo strani pensieri affollano la sua mente:”la morte della madre, il suo incontro con Genny dopo quasi trenta anni, i quadri di De Nittis, La donna col fanciullo e il fantastico menù impressionista della trattoria al Colosso.”
Poi il suo cervello non vuole cedere al torpore i suoi viaggi, e quella giapponese così carina che gli aveva quasi spezzato il cuore.
Quale cuore, quale senso a un’esistenza che ormai aveva preso una dimensione che più routinaria: non si può cercare un senso o il senso esiste?
L’eterno presente di Augusto si rompe un caleidoscopio infinito di ricordi, tutti confusi, tutti insieme presenti e nessuno a cui lasciare uno straccio di testimonianza, sul mondo che Lui aveva visto e che in parte non esisteva già più.
(Non ora, non adesso, pensava Augusto, immaginandosi di gridare, ma in realtà sull’ambulanza che correva a sirene spiegate per le strade della città, ho ancora tantissime cose da fare, solo ora riesco capire tutta la vita che mi sono rifiutato di vivere….).
“Puoi fermarti Renato, questo qui omai lo abbiamo perso, credo non abbia retto all’emozione”.
Renato spense la sirena e si diresse direttamente verso l’obitorio.
Augusto sarebbe rimasto per un po’ di tempo sdraiato dentro a un frigorifero.
Marina

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